Auto – consapevolezza
Che cosa si intende per “Consapevolezza di sé”?
Qui troverai spunti per comprenderla.
Chi può essere consapevole di se stesso?
Come arrivarci?
O come sviluppare la consapevolezza di noi stessi che già abbiamo?
In questa pagina la mini guida per il lavoro su di sé orientato alla auto – consapevolezza.
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Per i percorsi di consapevolezza esperienziali
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Che cos’è la consapevolezza di sé?
Partire con una definizione assoluta risulterebbe poco comprensibile. Infatti la consapevolezza di sé comprende vari aspetti o livelli. La sua spiegazione non può prescindere da presupposti riguardanti la natura dell’essere umano. Di conseguenza, occorre introdurla per gradi. Così da accompagnarla durante la lettura stessa di cosa è.
Di base, essere consapevoli di sé è essere a conoscenza di ciò che ci riguarda da vicino. Può essere una tematica personale. Anche uno stato fisico, emotivo o mentale. In ogni caso, si tratta di un dato di fatto che concerne la nostra esperienza di vita.
Se posso esser consapevole di un fatto che avviene nel corpo fisico, nella mente o nelle emozioni, la consapevolezza proviene da un’altra parte. Altrimenti non potremmo esser consapevoli di ciò che accade sui tre livelli menzionati.
Inoltre, consapevolezza di sé è sapere di esserci, di esistere. E’ un senso di sé, un ricordo di sé che riguarda il piano esistenziale. Sai che ci sei e vi poni attenzione. Ti accorgi, ti rendi conto. Perciò non dai te stesso per scontato. Forse non sai ancora CHI SEI, ma in qualche modo stai andando in quella direzione, proprio grazie alla consapevolezza di te stesso.
In altre parole, è proprio l’esperienza di vita che ci coinvolge e ci stimola a procedere nella consapevolezza di noi stessi.
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Di che tipo di conoscenza si tratta?
Innanzitutto è necessario operare una distinzione tra conoscenza e consapevolezza. Qual è la differenza?
La conoscenza oggettiva si esercita su un oggetto inteso come esterno. Per esempio, posso conoscere una materia specifica. O ancora, informazioni di vario tipo, che ho letto o sentito dire. O anche, posso conoscere come fare certe cose. Si tratta della conoscenza di altro da sé.
Invece, la consapevolezza riguarda il soggetto. Riguarda te in prima persona. Mentre un libro, una macchina o un computer non hanno consapevolezza di sé, l’essere umano ce l’ha. O quantomeno, può esercitare una qualità che possiede potenzialmente.
Allora, la consapevolezza di sé è un tipo di conoscenza che avviene all’interno del soggetto conoscente. E’ una faccenda tra te e te. Infatti, non puoi essere consapevole di qualcun altro.
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Caratteristiche
Ne consegue che la consapevolezza di sé riguarda il nostro Essere. E’ una funzione del Sé, inteso non come Io-ego, ma come pura Essenza. Ha sede nel nucleo dell’essere umano. Infatti proviene da una dimensione più elevata e comprensiva di quella della mente condizionata. Riprenderemo questi concetti nella mini guida più avanti in questa pagina.
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Livelli
Possiamo distinguere due fondamentali livelli di consapevolezza di sé.
- La consapevolezza di sé come facoltà di conoscere in modo diretto i fenomeni fisici, emotivi e mentali che accadono a se stessi. Questi sono esterni alla consapevolezza, perché appartengono alla sfera della personalità. Tuttavia, li esperiamo come interni a noi stessi perché ne facciamo esperienza in prima persona. Essi stimolano il lavoro della consapevolezza.
- La consapevolezza di sé come consapevolezza del Sé. Si tratta della pura consapevolezza. E’ l’intera consapevolezza. Essa emerge quando il precedente livello è stato sperimentato e si è andati oltre i fenomeni dell’io-personalità.
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Differenza tra coscienza di sé e consapevolezza di sé
Coscienza e consapevolezza vengono spesso confusi come sinonimi, ma non lo sono. Puoi consultare una pagina del sito dove spieghiamo la differenza tra coscienza e consapevolezza.
La coscienza di sé ha ancora a che fare con la mente. Perciò è superficiale. Si è coscienti di qualcosa che ci riguarda, ma che è inteso come un oggetto. Quasi che non ci riguardasse. L’esperienza è filtrata dalla mente, e pertanto incasellata in schemi preesistenti di tipo morale, sociale, religioso, ecc…
La consapevolezza di sé è originale. E’ insita nel tentativo di comprendere a fondo ciò che ci riguarda, con attitudine aperta. Non ha preconcetti né pregiudizi. Sta con quello che c’è, in ascolto. Sa attendere che la comprensione sorga da sé. E’ ricettiva. E’ un faro che guarda dentro.
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La consapevolezza di sé nel mondo odierno
Ogni giorno veniamo a conoscenza di molte cose. Infatti, siamo bombardati da numerosi input che giungono da fuori e ci impattano dentro. Spesso si è in difficoltà a gestire tutto ciò. La mole di informazioni da processare è tanta. Di conseguenza, è facile sentirsi confusi e far fatica a esercitare la consapevolezza di sé.
Ecco di seguito una traccia per orientarsi, una mini guida per approfondire la consapevolezza di sé.
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Come sviluppare la consapevolezza di sé?
Il percorso
L’essere umano condizionato è scisso in due: al suo centro giace dormiente la sua vera natura, che aspetta di essere risvegliata e riconosciuta. Ma ordinariamente ciò non avviene perché egli ne ha perso le tracce al punto da ignorarne l’esistenza. Perciò non la riconosce. Vive alla periferia di se stesso, convinto che l’insieme della sua storia personale costituisca la sua vera identità. Ciò non significa che non abbia la possibilità di prendere consapevolezza di sé e riconoscere chi egli realmente sia, se davvero lo desidera. È completamente libero di espandere il suo potenziale in ogni direzione.
Ha due vie dinnanzi a sé:
- Sviluppare la consapevolezza di sé, ricontattare la sua dimensione essenziale ed evolverla,
- Ritardare tale evoluzione e non curarsi di se stesso, restando inconsapevole.
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Quale via?
Nel primo caso si orienta verso ciò che è sottile, luminoso e consapevole. Nel secondo caso sviluppa il sistema difensivo, il cui scopo è mantenere il senso di identità acquisito. Benché possano essere tante le attività intraprese da questo livello, molte delle quali apparentemente etiche e utili, non servono a sviluppare il potenziale essenziale. Ma a intraprendere azioni che sono spesso ripetizioni, mirate a soddisfare desideri attraverso il riconoscimento altrui. Essendo esse svolte per rimanere all’interno di uno standard, non portano a conoscere la propria reale natura.
Sembrerebbe normale e sensato scegliere la prima opzione, visto che la seconda si rivela fonte di delusione e dolore. Nonostante ciò, sono una minoranza coloro che se ne rendono conto. Costoro decidono di applicarsi con coraggio, passione e perseveranza a scoprire chi realmente sono.
Sorge spontaneo chiedersi come mai. E’ vero che il dolore non può essere evitato in nessun caso, ma può essere usato come trampolino di lancio per andare oltre. Stiamo parlando principalmente del dolore psicologico. Esso è provocato dalla paura, dalla vergogna, dalla rabbia e dagli stati d’animo da cui siamo sopraffatti e che giudichiamo negativi. È proprio l’esperienza di queste forme di sofferenza che fa sorgere nelle persone l’anelito a cercare una via d’uscita. Così da porsi domande esistenziali e intraprendere un’azione in merito.
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Nota: questo testo è originale ed è soggetto a Copyright. Ha richiesto tempo ed energie per essere scritto e pubblicato. VIETATO copiare. Se vuoi trarne dei brani CONTATTACI.
Fuori o dentro?
Benché ad un livello più o meno conscio tutti gli esseri umani siano alle prese con quesiti che riguardano la loro condizione, le risposte vengono ricercate in due direzioni: fuori da sé o dentro se stessi.
La via verso fuori
Nel primo caso, guardano fuori di sé. Sperano di trovare all’esterno un rimedio per lenire o addirittura far scomparire la propria sofferenza. In questo caso la persona tende a usare quello che trova per mitigare il suo disagio. Fa ciò che fanno tutti. Si convince che attraverso la proprietà di cose e l’attaccamento alle persone sia possibile riempire quell’incolmabile vuoto interiore. Di esso peraltro pochi sono direttamente consapevoli. La paura di entrarci si trasforma in rabbia, rifiuto o in altre emozioni, se si è costretti anche solo a sfiorare questa possibilità.
Un esempio
Per esempio, quando una persona cara ci lascia, o perché muore o perché decide di andare per la propria strada, si è messi a confronto con il dolore della separazione. Lo spazio che essa occupava nella nostra vita si svuota. Interiormente si percepisce come se una parte di sé fosse stata asportata e al suo posto non sia rimasto che un buco vuoto. Ciò accade perché si era inconsciamente cercato di riempirlo con la presenza dell’altro. Ma una volta che egli è assente, esso riemerge. Se non si riesce a tollerarlo perché è troppo doloroso, perché le emozioni sono troppo intense, lo si rifiuta sopprimendolo. Si addotta un’altra strategia per compensarlo di nuovo, magari con un’altra persona, con un animale o con un’attività. Così si posticipa il confronto con il vuoto interiore.
La via maestra
Oppure, stanchi di fuggire, si sceglie l’altra direzione, quella della consapevolezza di sé. In altre parole, guardarsi dentro ed esplorare la natura di ciò che si incontra osservando la propria realtà. In questo caso la qualità di osservazione necessaria richiede implicitamente l’accettazione di tutti gli stati d’animo, non solo di quelli ritenuti piacevoli. Non è possibile comprenderci appieno se evitiamo parti di noi stessi censurandole come sbagliate. Vuol dire lasciare andare ogni pregiudizio sull’esperienza che ci sta attraversando, permettendo che essa sia così com’è completamente. Solo così quel buco vuoto può essere riempito da dentro con la nostra presenza. Benché non è qualcosa che possiamo fare, la vediamo semplicemente accadere se “stiamo” con quello che c’è.
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L’equivoco della personalità
Ci deve essere stato un tempo in cui l’essere umano era immerso nella beatitudine. Altrimenti non potrebbe concepire l’esistenza di una condizione in cui non c’è dolore. Nella sua memoria più profonda echeggia l’eco di quello spazio a cui anela ritornare. Esso è tuttora presente nella sua vita come un fiume sotterraneo. Ma egli, distratto dai suoi pensieri, non lo coglie. Non ne coglie i segnali che sono nascosti nei sintomi emotivi che prova. Non si spinge mai all’interno degli stessi. Piuttosto adotta ogni strategia per sviarli dalla sua esperienza. Proprio perché li rifiuta rimane in superficie, convinto che se si lascia andare nell’accoglierli si perderà in una infinita spirale di sofferenza.
Paradossalmente è proprio questa resistenza la causa della sofferenza. Egli non si è ancora concesso di sperimentare il passarci attraverso, per una ragione centrale per il nostro discorso: ha paura. Teme profondamente di rinunciare al dolore perché lo aiuta a mantenere in piedi un’idea di sé che, senza quel contributo inconscio, sarebbe destinata a cadere. Oppure ad essere drasticamente trasformata.
Questa idea, che non è un semplice pensiero ma una credenza penetrata nelle sue cellule, si è strutturata nel tempo, dal concepimento in poi.
Stiamo parlando dell’ego o personalità. Più che un’idea è un ologramma che occupa stabilmente lo spazio della consapevolezza di sé, e con il quale l’uomo è identificato. Nella sua condizione ordinaria, egli non ha consapevolezza di sé perché non si riconosce come consapevolezza. E’ identificato con la struttura che egli stesso proietta. Essa è la causa di ogni sofferenza perché lo separa da se stesso. Egli è suo malgrado intrappolato in un labirinto illusorio che ha costruito con le sue stesse mani e che crede essere la sua vera identità.
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L’inizio della ricerca
La consapevolezza di sé avviene quando mettiamo genuinamente in dubbio la veridicità di tale assunzione. Anche se inizialmente tale emersione non appare stabile, dobbiamo tener presente che è una nostra interpretazione della realtà. La percezione è influenzata da un fenomeno non ancora compreso. Cioè che siamo condizionati a dividere le nostre esperienze in buone e meno buone. Schierandoci con le une e scansando le altre, aderiamo a settori interni, contribuendo così a mantenerli tali. In alcuni ci sentiamo a nostro agio, mentre in altri no. Il giudizio su cosa sia giusto e sbagliato, ci rende frammentati e oscura la chiarezza che tutte le esperienze sono parte di noi.
In cammino
Un’altra cosa da tenere presente è che i meccanismi mentali e le credenze che sostengono la nostra identità, si ripropongono per inerzia. Anche se abbiamo o abbiamo avuto il senso di chi siamo, l’automatismo della personalità non si ferma di conseguenza. Esso continua a funzionare. In parte perché ci è familiare e la sosteniamo con le abitudini, e in parte perché deve essere consapevolmente esplorata per essere integrata. Questo implica che l’esperienza diretta del proprio essere è l’inizio del vero lavoro su di sé. Ovviamente non possiamo lavorare sul sé originale e primordiale, quello con cui siamo venuti al mondo, perché esso è già completo e perfetto. Il lavoro da fare per acquisire consapevolezza di sé è proprio quello di trasformare il piombo in oro, la personalità in Essenza.
In processo
Questo linguaggio è funzionale a esporre la situazione di noi esseri umani nel processo che va dall’alienazione al completo auto riconoscimento. Dalla prospettiva del Sé, la personalità non esiste. Ma durante il processo è naturale che emerga la paura, l’irrequietezza e perciò la compulsione a voler fissare la propria esperienza. La paura di perdersi è quella che ci fa aggrappare: al corpo, alle idee, alle cose e a tutto ciò che ci definisce. Così continuiamo inconsciamente a mantenere in vita una prigione invisibile.
Ma se ci concediamo, quando accade, il sentimento di essere completamente persi e vulnerabili, si crea una distanza con lo schema compulsivo che ordinariamente conduce il nostro modo di vivere. Ritroviamo il Sé reale. Non è un evento che accade una volta e va tutto a posto per sempre. Ma è la pratica di non resistere la propria esperienza e come tale è un lavoro quotidiano. Non è sempre di facile applicazione. Quello che segue è stato scritto con l’intenzione di fornire un quadro, tutt’altro che esaustivo, per facilitare tale pratica. Mi auguro che venga usato nel migliore dei modi.
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Pratiche per la consapevolezza di sé
Praticare meditazioni o discipline che inducono uno stato meditativo, è un’ottima via per entrare in contatto con la sfera più profonda di se stessi. Esse ci permettono di centrare l’energia e trovare sostegno nella propria presenza. Allo stesso tempo, occorre tener presente che la dimensione dell’essere, contattata grazie ad una tecnica, non perdura. Affinché possa diventare stabile, occorre affrontare e comprendere il dialogo interiore. E’ quello che ci porta fuori da noi stessi. Esso può essere osservato con più facilità durante la pratica della meditazione. Mentre per periodi più o meno lunghi è poco persistente o si interrompe. Ma quando smettiamo di praticare ritorna, altera lo stato armonico e influenza i modelli comportamentali in relazione.
Vivere meditativamente
Se concepiamo lo spazio della meditazione come separato dall’attività della personalità, continueremo ad oscillare tra una e l’altra. Ciò è comprensibile quando si inizia a lavorare su di sé, ad apprendere una tecnica. Ma successivamente è necessario portare lo spazio della meditazione in ogni aspetto della vita.
Proprio quando l’attività della mente si fa più intensa è il momento di meditare, che in altre parole significa rimanere consapevoli. È un compito certamente non semplice. Ma dovremmo iniziare a concepire che rimanere consapevoli anche in presenza di emozioni intense, quali la rabbia o la paura, ci rende più inclusivi. Con un po’ di pratica nell’includere le emozioni quando ci sono, la meditazione acquista profondità. In altre parole significa che diventiamo più forti e radicati, in grado di fronteggiare situazioni difficili senza collassare nell’incoscienza.
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Il dialogo interiore
Entriamo ora nel merito del dialogo interiore: vuol dire che ci sono più personaggi che discorrono tra di loro. Chi sono? Per rispondere a questa domanda è utile attingere alle informazioni che la psicologia moderna ha fornito sulla loro formazione. Tali informazioni possono essere usate per accelerare la comprensione. Individuando gli attori interni si crea una distanza e questo ci facilita nel disidentificarci da essi. Non stiamo con questo dicendo che l’analisi psicologica da sola sia sufficiente ad operare una trasformazione radicale. Il dialogo interiore accade a livello della mente. Nell’analizzare le sue varie strutture, la psicologia ha aperto delle prospettive che erano rimaste fino a poco tempo fa inesplorate. Ma essa non concepisce la possibilità che esista qualcosa al di là della psiche. Perciò facendo ricorso solo all’analisi intellettuale, si rischia di girare in tondo all’infinito.
Il dialogo interiore assorbe molta della nostra energia. Perciò è quella di cui vogliamo riappropriarci, così da riconoscerci in quanto vitalità e in quanto testimoni di questa vitalità.
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Presenza
Prima di addentrarsi nell’esplorare le strutture della personalità in maniera efficace, è necessario riconoscere il proprio Essere.
Se al momento non sappiamo esattamente chi siamo o se ne abbiamo solo un’intuizione, dobbiamo allora fare riferimento su qualcosa di reale in noi. Così da avere un punto affidabile su cui radicarci durante le nostre indagini. Questo perché la natura illusoria della mente è centrifuga. Come un vortice ci trascinerà via se non rimaniamo ben radicati al nostro centro, mentre la osserviamo.
L’emanazione più ovvia della nostra esistenza come essere è la presenza. Siamo presenti a noi stessi ogni volta che riconosciamo di essere qui. Ciò non si limita ad essere qui solo con il corpo, anche se essere presenti dentro il corpo è già un buon inizio. Siamo anche consapevoli di essere qui.
Con “essere presenti” non intendiamo meramente rendersi conto che occupiamo uno spazio, che viviamo la nostra vita o che facciamo determinate cose. Ma che siamo presenza indipendentemente da queste cose.
È la presenza lo spazio nel qui e ora che include tutto ciò che percepiamo, ogni esperienza e aspetto della nostra vita.
Il valore di realtà
È tanto semplice e immediata da darla per scontata, nello stesso modo in cui diamo per scontato un foglio bianco quando siamo catturati dalle lettere e dal loro significato. Oppure dagli avvenimenti che quotidianamente accadono nella nostra vita che ci distraggono dallo sfondo in cui accadono.
La presenza è la dimensione da cui si attiva l’alchimia della trasformazione perché è reale, mentre la personalità non lo è. Per questa ragione la presenza può penetrare la personalità fin nei suoi anfratti più bui e nascosti, mentre non è possibile il contrario. La personalità necessita di un qualche movimento sia emotivo che mentale per esistere, mentre la presenza esiste indipendentemente dal movimento. In ultima analisi la personalità è un’inesplorata area della presenza. Perciò non si può esplorarla senza che anch’essa si trasformi in presenza. La quale è una realtà ontologica che implicitamente è consapevolezza di sé e auto sostenente.
Esempi
Cosa si intende con l’essere presenti? Immaginate quella qualità di attenzione necessaria quando ci si accinge ad attraversare una strada molto trafficata. Le auto passano a velocità sostenuta in entrambi i sensi. L’intensità della presenza aumenta perché la situazione lo richiede. La prospettiva si amplia, i sensi diventano più acuti ed il livello di energia si alza. Ora volgiamo quella qualità di presenza dentro di noi. Se ci rapportiamo all’attività della personalità con la stessa accortezza, saremo in grado di notare molte più cose che normalmente ci sfuggono o diamo per scontate. Per esempio che non solo siamo consapevoli dei pensieri o delle emozioni ma dell’essere consapevole in sé.
Molti atleti praticano sport estremi perché durante le loro performance devono attingere a tutta la loro presenza di spirito per riuscire nell’impresa. Pensate a colui che si tuffa da un’altezza considerevole, diciamo 20 o 30 metri. Egli deve essere presente per coordinare i movimenti del corpo affinché l’impatto con l’acqua avvenga in modo che la sua incolumità fisica non sia lesa. Non c’è spazio in quella situazione per i soliti pensieri ed emozioni perché offuscherebbero la sua percezione e la gestione dello spazio-tempo. Durante il tuffo l’innalzamento dell’intensità e la scarica adrenalinica gli fanno esperire le cose in modo più intenso e chiaro. Da ciò deriva un senso di appagamento e anche se inconsciamente, egli sente di essere di più. Quella qualità di presenza aleggia dentro di lui per qualche tempo, ma poi decresce progressivamente. Questo perché il suo scopo non è scoprire la presenza, ma esperire la scarica adrenalinica.
Per attivare quella qualità di presenza non c’è bisogno di essere in una situazione di pericolo.
L’approccio meditativo
Lo scopo della meditazione unita ad altre pratiche di sviluppo è invitare la presenza a manifestarsi. In modo che con il tempo Essa ridiventi la nostra condizione permanente. Vuol dire che anche se sopraggiungono emozioni intense non ne siamo sopraffatti, ma continuiamo a rimanere rilassati e allo stesso tempo completamente presenti.
Proprio per questo la presenza è il riferimento necessario per smascherare i personaggi che dialogano dentro di noi. Affinché non si corra il rischio di rimanere invischiati in una indagine a circuito chiuso che non porta da nessuna parte. Cioè che la personalità indaghi se stessa.
Questa è al ragione per cui l’approccio analitico non trasforma. Semplicemente si limita a riconfigurare le componenti psichiche in un altro modo senza sfociare nella dimensione dell’essere.
Solo la pratica della presenza, unita all’ascolto dell’energia, ci porta alla consapevolezza vera. Essa sorge quando ci permettiamo di lavorare su noi stessi con piena disponibilità a osservarci. Questa consapevolezza di sé in evoluzione è l’ambiente interiore idoneo ad accettarci così come siamo.
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di Asimo Roberto Caliò e Renata Rosa Dwija Ughini
Copyright – tutti i diritti riservati –
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Lettura consigliata
“Il libro arancione: tecniche per il risveglio della consapevolezza” OSHO